La recente petizione contro l’uso alimentare dell’olio di palma e la presa di posizione di alcune aziende produttrici di dolciumi che hanno deciso di eliminarlo dalle proprie ricette, dà spunto per alcune riflessioni che vorrei condividere.
La prima, lampante, è che i consumatori hanno il potere. In una società globalizzata e basata sul consumo, chi di pubblicità ferisce, di pubblicità può perire. Le aziende produttrici hanno infatti capitolato dopo aver messo in atto diversi (e anche abbastanza subdoli) tentativi per cercare di convincere il mondo della salubrità di questo grasso tropicale. E’ probabile invece che il solo fattore economico sia la chiave di volta che ha portato l’olio di palma a intrufolarsi nelle nostre merendine, in cracker, grissini, fette biscottate, patatine e snack, nel gelato, nel preparto per brodo, in budini e creme pronte, creme alla nocciola, e potrei continuare con la pletora di prodotti che evito, sempre con maggior fatica, di comprare.
Se escludiamo l’allarmante presenza di composti tossici recentemente rilevata nell’olio di palma da un ente di ricerca internazionale, le altre pur valide motivazioni salutistiche mosse dai nemici dell’olio di palma, sono facilmente smontabili osservando che, prima di questo, per produrre dolciumi si usava il burro, altro grasso saturo, oltretutto di origine animale, con tutti i danni dell’impatto che estesi allevamenti producono all’ambiente.
Proprio l’equilibrio ambientale sembra non reggere la produzione dell’olio di palma. Per produrlo si abbattono foreste tropicali, con la perdita irreversibile di innumerevoli funzioni ecologiche che queste, silenziose, svolgono a titolo gratuito per l’umanità indistinta, e che sarebbe bene cominciare a monetizzare ed inserire nei bilanci economici degli stati e delle aziende produttrici.
Ancora l’equilibrio ambientale viene intaccato se si pensa che per importare questo grasso da paesi lontani, vengono impiegate navi, treni, camion, con dispendio cioè di preziosa energia per il trasporto e un impatto di emissioni in atmosfera evidentemente alto.
E i costi sociali ed economici locali, vogliamo metterli all’ultimo posto? Il Lodigiano è stato la patria del latte e del burro, invidiata per secoli grazie alla straordinaria tecnica e produttività lattiero casearia. Qui abbiamo governato l’acqua, che serve per i campi, che nutrono le mucche. Negli ultimi vent’anni abbiamo visto gradualmente ma inesorabilmente abbattere le “nostre” frisone, convertire a carne gli allevamenti superstiti, chiudere le industrie di lavorazione del latte, con implicazioni economiche, sociali, paesaggistiche.
Qualche tempo fa, un celebre quotidiano locale riportava che, nonostante i continui supporti economici e agevolazioni, il bilancio dell’agricoltura lodigiana permane in crisi; nell’articolo qualche personaggio asseriva la necessità di destinare i fondi e misure all’imprenditoria industriale.
In questi giorni sono comparsi sui bancali dei supermercati nuovi prodotti “senza olio di palma”. Alcune aziende lo hanno sostituito con olio di girasole, altri, pericolosamente, con olio di colza, ma alcuni sono tornati ad usare un po’ di burro. Che sia la strada per rianimare l’agricoltura tradizionale lodigiana?
Ah, se tutte le merendine e i croissant si facessero col burro lodigiano! Per star bene, basterebbe mangiarne meno e muoversi di più.
Anna Maria Rizzi
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