Tutto è cominciato quattro anni fa, ero in macchina. Uscivo da un incrocio di campagna, uno dei tanti nel Lodigiano, giravo a sinistra, ma dovevo dare la precedenza a un enorme autoarticolato che, proveniente da una strada secondaria, si era immesso nell’incrocio da destra. Curvava a destra, il camion, cosicché nell’immettermi a passo d’uomo nell’incrocio, vidi sfilare davanti ai miei
occhi tutto il carico di cui era ricolmo: un enorme tronco d’albero, fatto a pezzi, adagiato sul cassone, da cui scendevano frammenti di foglie e di legno appena tagliato. Enorme veramente, tanto che mi chiesi dove mai avessero potuto tagliare un albero così maestoso. Quel secondo che impiegarono le mie sinapsi per formulare la domanda cambiò per sempre la mia vita: un albero mi stava guardando, vivo, immobile, possente, sano, ma pur sempre a pezzi, dal gavone di un camion. Stentai a riprendermi da quella fortissima sensazione, a rimettermi in marcia, frastornata, pensando a ciò che avevo visto e soprattutto percepito.
Sono sempre stata “amica” degli alberi, li apprezzo per la loro ombra, la temperatura che d’estate ci regalano, il colore delle loro foglie, la varietà di forme dei loro frutti e semi, la bellezza che dipingono quando fanno da quinta o sono essi stessi il punto focale di paesaggi suggestivi, mi affascina la loro storia e i nomi che l’uomo, nella sua pulsione classificatoria, ha loro attribuito. Ma arrivare a percepire fisicamente l’essere vegetale vivente davanti a me, non mi era mai capitato e, pur pensando di essere alle soglie della follia, iniziai a cercare notizie, con circospezione, in biblioteca.
Trovai Effetto Biofilia di Clemens Arvay, Verde brillante di Stefano Mancuso e mi ricordai della scena di un film che ebbi occasione di vedere da piccola: era un giallo, genere che non amo affatto, ma l’assassino, quella volta, lo smascherò una pianta, le cui violente reazioni in presenza del losco individuo venivano rilevate e documentate attraverso una macchina.
Era anche il periodo in cui mi trovai ad intervenire durante l’assemblea pubblica per il progetto di “riqualificazione urbana e del verde” dell’Isola Carolina di Lodi e, cercando documenti utili alla causa, trovai l’interessante regolamento del verde pubblico e privato della città di Treviso, la Carta dei diritti del verde. Per farla breve, le mie percezioni e le conseguenti letture cambiarono per sempre il mio modo di pensare alle piante. Da allora, mi capita di accorgermi sempre più spesso di questo vocabolo, “riqualificazione”, abbinato a questioni relative il verde: ogni volta si prevede il taglio di alberi di ogni tipo, età, dimensione, stato conservativo.
Di solito, quando un albero viene tagliato in ambito pubblico è perché l’esemplare è malato, pericolante o perché, piantato in spazi non adeguati, con le sue radici provoca danni alle infrastrutture urbane. A volte nulla di tutto ciò e si taglia perché impedisce la visibilità nei pressi di un incrocio. Si taglia anche perché ci sono problemi di sicurezza: un caso esemplare e drammatico, ancorché lontano da noi, è rappresentato nel film Il giardino di limoni, dove una donna palestinese erede del limoneto di famiglia, si vede costretta a lasciare che grande parte della piantagione dei padri venga tagliata per garantire la sicurezza della famiglia di un diplomatico israeliano. Ma un esempio sul nostro territorio, che mi è capitato di ascoltare, sono state lamentele su un piccolo bosco che impediva la visuale di eventuali persone che lo attraversavano, casomai fossero state malviventi.
Di pretesti per tagliare ne ho sentiti molti, nel tempo:
- un agricoltore che taglia perché l’albero “fa ombra al campo”
- il proprietario della villetta deve tagliare perché “altrimenti i vicini mi fanno causa”
- oppure perché “se viene il vento o un forte temporale c’è il rischio che cada sulle macchine”
- incredibilmente, si deve tagliare anche perché “quando c’è il vento gli alberi scricchiolano, si agitano e fanno paura”.
Una sordida malattia ha afflitto le nostre menti: la dendrofobia, penso. Un neologismo? No, il vocabolo esiste davvero: si usa in psicologia per definire la paura degli alberi e di tutto ciò che li riguarda. Eppure, ci sono luoghi dove gli alberi non fanno così paura, sono invece integrati totalmente anche nelle città.
Le piazze della Provenza, dove grandi platani sono coltivati in modo che le loro chiome facciano da ombrello alla piazza sottostante, trasformata dai gestori dei locali in un parterre di tavolini e sedie dove la gente sosta per bere qualcosa e riposarsi dal caldo.
Hannover, nel nord della Germania, la foresta attraversa la città, l’autostrada attraversa la foresta, ma la foresta non se ne cura: gli alberi crescono, si sviluppano attorno alle strutture urbane, senza che nessuno si preoccupi. Un cartello ti avverte che se entri in certe zone del bosco, possono cadere rami dagli alberi, quindi è meglio non andare. Di tanto in tanto, l’autostrada si blocca perché rami cadono sul tracciato. Nonostante ciò, a nessuno viene in mente di perorare la causa di abbattimento o drastica potatura: è accettata l’idea che gli alberi sono fatti così, ogni tanto cadono o perdono rami, è ritenuto il prezzo da pagare per poter respirare.
La Provenza, Hannover, forse due luoghi dove la dendrofobia non ha ancora radicato. Le fobie si risolvono affrontando le proprie paure. Un buon sistema per scacciare la paura degli alberi e persuadersi che anche essi sono creature viventi, è quello di documentarsi: leggere per cambiare il proprio paradigma mentale verso le piante e il mondo verde in generale. Oltre alle letture qui citate, consiglio vivamente altri testi di Stefano Mancuso, in particolar modo, La repubblica delle piante, utile a favorire la consapevolezza che senza le piante, che ci nutrono, forniscono materia prima, bellezza e ossigeno, saremmo morti da un pezzo, o forse non esisteremmo nemmeno.
Un altro sistema per vincere la dendrofobia potrebbe essere ciò che usa fare la locandiera di un agriturismo del pavese, conosciuta di recente: “Io abbraccio gli alberi. Me lo ha insegnato mio papà, che adesso ha più di ottant’anni. Quando devo piantare gli alberi mi dice sempre: <<Non piantarli piccoli, prendi delle belle piante grandi>>. E così, una volta all’anno, faccio arrivare un bilico pieno di piante grandi e le pianto. Poi le guardo e dico loro: <<Ma come sei bella!>> e le abbraccio”.
Anna Maria Rizzi
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