Prendi una pecora, portala in città e il gioco è fatto. Nella speranza che non si avveri mai il futurista quadro animale del romanzo “Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?” meglio noto come Blade Runner*, leggo con piacere che a Ferrara hanno scoperto l’acqua calda.
E’ un modo di dire per dire che hanno scoperto che le pecore mangiano l’erba.
Erba vera, non erba sintetica come quella che verdeggia dai quadrilateri di certi innovativi campi di calcio della bassa Lombardia, immutevoli e resistenti ad ogni parassita; questi, è chiaro, non c’è pecora che tenga, non permettono a nessun essere vivente di trarre profitto dalla propria farlocca presenza nel paesaggio di una pianura tracciata col livello.
Ma a Ferrara, lì sì che hanno capito come si fa. Ci voleva la crisi per smuovere le reminiscenze agresti di una società che si è votata al commercio, ai servizi e all’industria, e lasciare che la mente facesse spazio ai ricordi infantili delle pecore che arrivavano in pianura, durante la stagione giusta. Alzi la mano chi non le ha mai viste arrivare, da bambino, le pecore, nei campi vicino a casa o poco distanti, e ogni volta si è trovato ad esclamare sorpreso e incantato “…le peeecoreeeee!”, facendo un verso simile a quello dei lanosi quadrupedi erbivori.
Le pecore arrivavano sempre attorno a Pasqua. Non ho mai capito se i pastori venissero per vendere capi in vista del pranzo sacrificale oppure se in forza di una pura coincidenza stagionale, e prima o poi lo appurerò, ma è certo che passavano di qui perché andavano o tornavano da qualche parte.
Lo scorso ottobre le pecore sono arrivate proprio in un campo vicino a casa e, anche se non sono proprio più una bambina, ho esclamato sorpresa e incantata “…le peeecoreeeeee!”. Ma stavolta sono andata a parlare con il pastore.
Il pastore non sembra cambiato da allora, ha solo comprato un piccolo camper, dove alloggia durante le umide sere padane. Età indefinibile, bastone, cavallo dei pantaloni sgualciti al ginocchio, camicia di flanella a quadri, sorrisetto beffardo, capelli arruffati, viso vissuto, occhi di ghiaccio che scrutano lontano anche se in realtà gli sto davanti a poca distanza. Il pastore sembra sempre lo stesso e gli chiedo “Scusi, da dove viene con le pecore?“. Sorpresa del fatto che il pastore ha una voce e proferisce parole, lo ascolto dire che viene dalla Bergamasca e che sta portando le pecore a ricovero in una stalla della zona. La prossima primavera tornerà per riportarle nelle valli in quel di Bergamo e così via. Le pecore del gregge non sono sue e, giunte a maturità, ahimè, finiranno i loro giorni con intingoli e patate. La lana, quando viene tosata, serve ormai solo per scopi diversi dall’abbigliamento umano, per la scarsa qualità del vello, e il latte per questo gregge non è l’obiettivo principale.
Porta con se un aiutante, il pastore: è un ragazzo della zona disamorato dagli studi e affascinato come me dai pastori e dalle greggi. Un paio di anni fa andò con suo padre a chiedere informazioni al pastore e lì cominciò la sua avventura di vita. Sta imparando il mestiere e gli piace molto perché, dice, si sente libero. Tralascio le reminiscenze georgiche virgiliane, ma penso che forse il ritorno alla vita agreste risolverebbe, con profitto per tutti, molte delle situazioni di svogliatezza negli studi che affliggono i nostri adolescenti.
Il prato vicino a casa brucato dalle pecore, è rimasto pulito tutto l’inverno. Mi sono ricordata che due anni fa lo stesso campo, infestato dall’ambrosia, venne tosato da un gregge misteriosamente comparso all’inizio dell’estate: quell’anno molti starnuti in meno e decisamente una vita migliore.
Al di là di tutto, credo che gli amministratori in quel di Ferrara abbiano visto lontano. Prato tosato e concimato, spettacolo gratuito, allergici sereni, casse pubbliche non esangui, gregge nutrito, pastore rivalutato, tradizione preservata, ispirazione per chi vuole cambiare strada. Se vi pare poco…
Anna Maria Rizzi
* Romanzo di Philip K. Dick – Lo scenario è una San Francisco post atomica in un mondo dove gli animali sono quasi del tutto estinti e il possesso di un animale vero diventa elemento di affermazione sociale. Il protagonista, Deckard, è assillato dal fatto di possedere, contrariamente ai suoi conoscenti, solo una decrepita pecora robotizzata che “bruca” in giardino.
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